Parashat Vayetze – Due madri, due storie
Nella Parashà di Vayetze, leggiamo della nascita degli undici figli di Ya’akov. La storia di Ya’akov e delle sue mogli è una delle narrazioni della Torà che presenta aspetti diversi affrontati dai Chachamim, ciascuno con contenuti morali ed insegnamenti importanti ed ancora attuali.
Uno degli argomenti interessanti della descrizione nella Torà di queste nascite, è il modo in cui vengono dati i nomi a ciascuno dei figli di Ya’kov. Ad ogni figlio viene dato un nome di grande impatto il cui significato è dettagliato nei versetti della Torà. Ad esempio, il nome “Reuven” viene dato da Lea perché “ra’à Hashem be’ony” (Hashem la vide disperata), a “Shimon” è stato dato il suo nome perché “shamà’ Hashem et tefilatà” (Hashem ascoltò la sua preghiera). Lea chiama il suo quarto figlio “Yehuda” spiegandone il significato come riportato nel versetto: “hapa’am odè et Hashem” (Questa volta ringrazierò D-o). Esprimendo in questo modo il suo profondo senso di gratitudine attraverso il nome di Yehuda, Lea influenza per sempre la storia dando indirettamente questo nome all’intero popolo ebraico, ha’am hayehudì. Questo senso di gratitudine era così forte che il Talmud afferma: Rabbi Shimon Bar Yochai disse: Dal giorno in cui il Benedetto Egli Sia creò il Suo mondo, non vi fu nessuno che lo ringraziò finché Lea non venne a ringraziarlo. (Talmud Bavli, Berachot). Il significato delle parole di Rabbi Shimon Bar Yochai, ci portano ad una questione difficile: Avraham non ha mai ringraziato D-o? Yitzhak e Ya’akov non Lo hanno ringraziato? Tutte le persone avvicinate all’idea del D-o unico grazie ad Avraham, non Lo hanno ringraziato? È concepibile che Lea sia stata effettivamente la prima persona a riconoscere l’obbligo e la necessità di ringraziare D-o?
Per rispondere a queste domande dobbiamo analizzare attentamente il segreto della gratitudine espressa da Lea e, tramite questa analisi, capire perché è considerata la prima persona a ringraziare D-o. Quella di Lea è stata tutt’altro che una vita senza preoccupazioni, anzi, la Torà ci insegna che in realtà è stato il contrario. Lea ha avuto vita difficile e amara, piena di preoccupazioni e sofferenze. La Torà descrive Lea con la caratteristica degli occhi “spenti”. I Chachamim spiegano che il motivo per cui è così descritta è perché piangeva molto spesso. Per cosa piangeva? Il motivo del pianto era dovuto al fatto che Lea avrebbe dovuto sposare Esav, il fratello di Ya’akov in quanto lei era la maggiore delle figlie di Lavan ed Esav era il maggiore dei figli di Yitzhak, quindi fu deciso che la maggiore avrebbe sposato il maggiore: Esav avrebbe sposato Lea, e la sorella minore avrebbe sposato il fratello minore, Ya’akov avrebbe spostato Rachel. Questa preoccupazione le pesava e la faceva piangere così tanto da avere effetto sui suoi occhi. Anche dopo che le sue preoccupazioni si furono attenuate grazie al matrimonio con Ya’akov, matrimonio basato sull’inganno architettato da suo padre, Lavan, tramite lo scambio delle spose, Lea invece di Rachel, sua sorella minore, possiamo solo immaginare come si sentisse la sposa la prima notte di nozze sapendo che da un momento all’altro lo sposo scoprirà di essere stato ingannato e che lei non è la sposa che voleva. In effetti, dopo che Ya’akov ha scoperto di essere stato ingannato , la Torà ci dice che Lea era la moglie meno amata nella casa di Ya’akov.
Lea ha avuto senza dubbio una vita dura e amara ma, nonostante questa amarezza, ha avuto la capacità di vedere un raggio di luce quando è nato suo figlio Yehuda, ed è stata veloce a ringraziare D-o. La sua gratitudine non era solo per la nascita di suo figlio, ma perché questo accadimento era un raggio di luce in una vita difficile. Lea era capace di riconoscere il lato positivo di ogni situazione, nonostante la sua amarezza. In ogni prova seppe rivelare quello stesso raggio di luce che illuminava la realtà e per questo ringraziò D-o. Questo tipo di gratitudine non era mai stata espressa fino a quel momento. Lea è stata la prima a riconoscere il bene nelle difficoltà, a riconoscere la mano di D-o anche in ciò che era nascosto. È importante notare che la persona che riporta questo insegnamento non fu altri che Rabbi Shimon Bar Yochai, di cui il Talmud dice che soffrì terribilmente per tutta la sua vita, nascondendosi per tredici anni in una grotta mangiando solo carrube e bevendo solo acqua al fine di sfuggire al decreto emesso contro di lui, in una grotta dove apprese i segreti della Torà e seppe ringraziare D-o. Fu lui a riconoscere l’importanza di Lea come esempio e simbolo di accettazione delle difficoltà con amore.
Secondo i Chachamim, Lea e Rachel rappresentano con la loro storia due aspetti diversi della vita e del popolo ebraico. A livello generale, Lea rappresenta la sofferenza della diaspora, della quale ebbe una profezia – che la seconda diaspora sarebbe stata causata dai discendenti di Esav, mentre Rachel, nella profezia di Yirmeyahu, verrà consolata e consolerà gli ebrei nel momento della gheulà, la redenzione finale. Ad un livello più personale, di singole persone, Rachel rappresenta lo tzaddik, il giusto, che non ha particolari sofferenze nella sua vita, mentre Lea rappresenta chi, anche di fronte alla sofferenze, riesce a vedere la luce, a vedere la mano di D-o, ad affrontare le prove cui è sottoposto perché convinto che da D-o possano derivare solo berachot, perché convinto della possibilità di farcela, perché in questo modo si ha la possibilità crescere e migliorarsi. Il dettaglio apparentemente superfluo degli occhi di Lea rappresenta, quindi, un insegnamento importante ed attuale per tutti noi e per le nostre vite.