Parashat Devarim – La giustizia giusta
Questa settimana iniziamo a leggere l’ultimo dei cinque libri della Torà il libro di Devarim. Questo libro è composto principalmente da discorsi che Moshè fece al popolo ebarico nei giorni prima della sua morte al confine della Terra d’Israele. Questi discorsi riassumono la storia del popolo ebraico durante i quarant’anni di pellegrinaggio nel deserto nel percorso che va dall’Egitto alla Terra d’Israele. Durante questa narrazione, Moshè fornisce loro una guida e istruzioni su come preservare l’unicità della nazione ebraica dopo essersi stabiliti nella Terra d’Israele, in vista delle sfide spirituali e culturali che avrebbero dovuto affrontare nel confronto con le popolazioni adiacenti.
Uno degli eventi esaminati da Moshè nel suo primo discorso è la nomina dei giudici. Dopo aver spiegato la necessità di creare un sistema legale giusto, Moshè descrive le istruzioni che ha dato ai giudici prima della loro nomina: “In quel momento ordinai ai tuoi magistrati: «Ascoltate i vostri fratelli e giudicate giustamente tra una parte e l’altra, sia essa un connazionale o uno straniero.’” (Devarim 1:16). Le parole “giudicare giustamente” sono ambigue. Il semplice significato è assicurarsi che il giudizio sia giusto, equo e onesto.
L’Or haChaim ritiene che l’intero versetto sia problematico. Come potrebbero i giudici giungere a un giudizio equo se prima non hanno ascoltato le argomentazioni delle parti in causa? In secondo luogo, perché nel versetto non è semplicemente scritto un imperativo come shim’u (ascoltate), invece di scrivere la parola shemo’a all’infinito? Chiaramente, l’intenzione di Moshè era quella di rendere l’ascolto delle argomentazioni dei litiganti un processo continuo piuttosto che una tantum. I giudici non dovrebbero cedere alla sensazione di aver già ascoltato la parti in causa abbastanza volte da essere stufi di sentire sempre la stessa cosa. Ci sono due aspetti della questione. I giudici non dovrebbero mostrare riluttanza ad ascoltare rinnovate argomentazioni da parte di un litigante che afferma di avere un altro punto a suo favore, e i giudici non dovrebbero rimandare la prosecuzione dell’udienza ad altra data perché sono stanchi di sentire di più in quel particolare giorno, ma, se possibile, il procedimento dovrebbe essere concluso in un’unica sessione. Fondamentalmente, secondo l’Or haChaim, l’argomento su cui Moshè istruisce i giudici è quello che viene chiamato rinvio della sentenza. Moshè, allo stesso tempo, vuole anche avvertire i giudici di essere abbastanza astuti da scoprire tra le righe di ciò che i litiganti hanno da dire per scoprire se quanto esposto corrisponde al vero.
È vero che il verdetto deve basarsi su ciò che hanno detto le parti in causa (e non su ciò che non hanno detto o su come lo hanno detto) ma, se durante la loro testimonianza dal comportamento di una delle parti risulta chiaro che la verità sembra essere l’opposto di ciò che viene affermato, in quel caso Moshè ordina ai giudici di ascoltare qual è la differenza tra ciò che dicono i litiganti e ciò che è ovviamente una distorsione. Ciò consentirebbe ai giudici di “arrivare a un verdetto equo”, cioè a quello che ai giudici sembra essere il vero stato delle cose. A volte, tale giudizio può sembrare in contraddizione con ciò che è scritto nei libri e nei codici di giustizia. Un giudice non può pronunciarsi in modo equo a meno che il verdetto non sia in linea con la sua percezione della verità. La parola shemo’a, coniugata all’infinito, si rivolge non solo alle orecchie del giudice ma anche al suo cervello.
La parola “giustamente” è oggetto di un commento di Rabenu Bechaye, che la legge nel senso di “compromesso”. Ciò significa che il giudice non deve sforzarsi di raggiungere una decisione basata sulla giustizia assoluta, ma che il giudice stesso dovrebbe ammorbidire la discussione e consigliare ad entrambe le parti di cedere un po’ e scendere a compromessi. Questa ambizione di raggiungere un compromesso non è casuale. Nella profezia letta come Haftara questa settimana, Yeshaia profetizza sul buon futuro in serbo per Yersuhalaim: “Tzion sarà redenta mediante la giustizia e il penitente mediante la rettitudine” (Yeshaia 1:27). La giustizia e il compromesso sono i modi in cui una persona fa spazio agli altri nel suo cuore. Insistere sull’applicazione delle regole alla lettera, anche se cosa giusta, può essere segno di egoismo. Anche se una persona ci può aver danneggiato, anche se ci deve qualcosa, dobbiamo avere la consapevolezza che gli altri hanno dei difetti, proprio come noi stessi: Questo è un concetto basilare che cambia la posizione di una persona di fronte alla società.
Nella descrizione che fa il Talmud dei fattori che portarono alla distruzione di Yerushalaim, troviamo quanto segue: “Yersushalaim fu distrutta perché le persone insistevano sui propri diritti basati sulla pedissequa interpretazione della legge, e non erano disposte ad essere indulgenti” (Talmud Bavli , Trattato di Baba Metzia, daf 30). C’è un messaggio importante nascosto qui: Una persona dovrebbe elevarsi al di sopra della posizione di base chiedendo ciò che pensa di meritare. La nostra posizione dovrebbe essere più morbida, più inclusiva, meno esigente.
Non è certamente un caso che la Parasha di Devarim sia la Parasha che viene sempre letta lo Shabbat che precede Tish’a beAv. Questa ricorrenza rappresenta la data più funesta del calendario ebraico per varie ragioni. Il nostro compito è quello di studiare le ragioni che hanno portato a questa tragedia, rifletterci sopra e fare tesoro delle lezioni che si possono apprendere in modo da correggere il nostro comportamento e migliorare la nostra vita, migliorando infine anche la nostra società.