Parashat Chukkat – Saper guardare in alto
Nella Parashà di questa settimana, nello specifico nella Parashà di Chukkat, gli ebrei, che sono prossimi a completare i quarant’anni di vagabondaggio nel deserto, si ribellano ancora una volta. Una delle cause della ribellione è data dal fatto che Aharon sia appena morto sul Monte Hor. Inoltre il popolo ebraico ha recentemente ricevuto istruzione di fare una deviazione piuttosto che prendere la strada molto più breve attraversando il paese di Edom. Anche se gli edomiti hanno mostrato una grande mancanza di apprezzamento non permettendo al popolo di Israele di attraversare la loro terra, D-o ha proibito loro di attaccarli. Uno dei timori degli ebrei è che, dal momento che ora viene detto loro di viaggiare in una direzione che allontana dalla Terra Promessa, a loro, come ai loro antenati, verrebbe in questo modo negato l’ingresso in Eretz Yisrael e perirebbero nel deserto. I rigori di tanti anni di viaggio hanno messo il popolo ebraico a dura prova ed iniziano a lamentarsi, senza giustificazione, provocando ancora una volta l’ira di D-o: “Perché ci hai fatti salire dall’Egitto per morire in questo deserto, dove non c’è cibo né acqua, e non possiamo più tollerare questo cibo inconsistente?” (Bamidbar 21:5)
Abarbanel osserva che le lamentele riguardo al cibo e all’acqua riguardano in realtà la manna e l’acqua del pozzo miracoloso che avevano seguito il popolo ebraico nel deserto. Il popolo ebraico sosteneva che questi cibi “celesti” avrebbero potuto essere appropriati per il deserto, ma erano sicuramente inappropriati per l’ambiente agricolo che avrebbero incontrato una volta entrati nella terra di Israele. D-o vede in questo sfogo un’altra lamentela ingiustificata parte di una lunga litania di atti ribelli e un’arrogante dimostrazione di mancanza di fede riguardo alla capacità di D-o stesso di provvedere adeguatamente ai bisogni del popolo ebraico. Di conseguenza invia serpenti nell’accampamento, e un gran numero di persone muore. Quando gli ebrei corrono da Moshè chiedendo perdono, Moshè intercede per loro. In risposta, D-o ordina a Moshè di costruire un serpente di rame e di posizionarlo su un palo alto in modo che coloro che vengono morsi guardino il serpente e sopravvivano. Moshè procede a costruire un serpente di rame, lo pone sull’asta, e tutti quelli che guardano il serpente sopravvivono.
I Rabbini del Talmud, nel trattato di Rosh haShana 29a, discutono riguardo a questo caso accostandolo ad un episodio in qualche modo simile, alla fine del capitolo 17 del libro di Shemot, dove le mani di Moshè sono tenute in alto durante la battaglia contro Amalek, “ Un serpente di rame causa la morte o la vita? Le mani di Moshè vincono le battaglie o perdono le battaglie? In effetti, i Rabbini sono turbati dal fatto che questi rituali apparentemente “soprannaturali” sembrano davvero fuori dal comune e sembrano avere poco a che fare con l’ebraismo.
La risposta che si danno i Rabbini nella loro discussione è che non sono stati tanto il serpente o le mani di Moshè a guarire o a prevalere in battaglia, ma piuttosto il fatto che i serpenti e le mani di Moshè hanno fatto sì che gli ebrei guardassero in alto, facendo sì che il popolo sottoponesse il proprio cuore a D-o. Non sono stati il serpente o le mani ad avere effetto, ma piuttosto la fede che il popolo ha riposto in D-o che ha guarito gli ebrei dal morso dei serpenti e ha permesso loro di prevalere nella battaglia contro Amalek. Se è così, perché è stato necessario ricorrere ai serpenti di rame e utilizzare le mani di Moshè per indirizzare le persone a concentrarsi su D-o?
In realtà, questa domanda è piuttosto pertinente anche oggi, dal momento che affrontiamo praticamente lo stesso problema a causa di tutte le distrazioni e le lusinghe di cui è pervaso il mondo di oggi – ossessione per la carriera, la ricchezza, il piacere e l’intrattenimento: Come e dove si inserisce D-o in tutto questo? La risposta ci viene fornita dall’episodio del serpente e delle mani di Moshè, episodi che rappresentano un mezzo per ottenere un fine molto importante, un modo per persuadere le persone a guardare in alto verso il cielo, a concentrarsi su D-o. Se però il serpente e le mani stesse diventano il fulcro centrale, allora abbiamo fallito miseramente nella nostra missione.
Molti programmi e risorse sono stati usati dalle organizzazioni comunitarie negli anni per attirare ebrei marginalmente affiliati alla comunità stessa o all’ebraismo. Se questi metodi vengono utilizzati correttamente, sono una benedizione. Se questi metodi diventano un fine in sé e per sé, allora diventano una vera e propria idolatria e alla fine si dimostreranno non solo inutili, ma distruttivi. Dobbiamo sempre tenere a mente le parole scritte in Tehilim 19:8 che dichiarano che la purezza della Torà di D-o è davvero l’elemento essenziale dell’ebraismo. Non dobbiamo lasciarci distrarre dagli espedienti di cui è pieno il mondo che sono solo effimeri. Le parole di D-o sono l’essenza. Dobbiamo imparare a guardare oltre, a guardare per così dire in alto, in definitiva dobbiamo imparare a guardare la luna e non il dito. Nella nostra vita, nella vita di tutti, ci possono e ci potranno essere momenti bui, momenti in cui ci lamentiamo o ci sentiamo chiusi in una situazione senza luce e senza vie di uscita. Proprio in quei momenti dobbiamo ricordarci delle mani di Moshè, quelle mani che ci indicano la via corretta, la via della fede e della speranza nell’aiuto di D-o, la via che ci indica D-o stesso attraverso l’osservare le mitzvot, fare atti di chesed, di giustizia e di tzedakà. La via indicata dall’ebraismo per raggiungere il vero successo.