Parashat Vayikra – Nessuno resti indietro
La Parashà di questa settimana, che dà il titolo all’intero libro della Torà in cui si trova, è chiamata Vaykira. Analizzando quest’unica parola, i Chachamim distinguono due grandi figure, l’una contrapposta all’altra: Una di queste è Moshè, come si evince dall’inizio della Parashà, “Ed Egli [D-o] chiamò Moshè”. Cancellando l’ultima lettera della parola “vayikra”, rimane la parola “vayikar”, “Ed Egli incontrò, per caso”. Questa parola evoca l’immagine del profeta pagano Bilam, poiché su di lui è scritto, “vayikar Elokim el Bilam” (Bamidbar 23:4). La mancanza di una semplice lettera rimarca la sostanziale differenza tra i due personaggi.
I Chachamim in Vayikra Rabba 1:13 spiegano questa differenza: La “chiamata” a Moshè connota la lingua dell’amore, di ispirazione, di attivazione, mentre l’atteggiamento di Bilam, “vayikar” – l’incontro casuale con D-o – connota “il linguaggio della casualità, il linguaggio della vergogna, il linguaggio dell’impurità”. Si tratta di due approcci radicalmente diversi nei confronti degli eventi significativi della vita. L’atteggiamento corretto che dovremmo sempre cercare di tenere è quello di Vayikra, distanziandoci dall’atteggiamento di Bilam, l’uomo di “vayikar”. l’uomo che incontra D-o, ma rimane immutato, privo di ispirazione, passivo. Moshè, l’uomo di “vayikra”, vive la stessa esperienza di Bilam – l’incontro con D-o – ma la concepisce come una sfida, come invito all’azione, come un’opportunità. Il tipo di persona incarnata da Moshè, colui che vede nella propria vita la presenza divina, ha la capacità di vedere la propria vita come un’opportunità per crescere, vedrà i grandi eventi dell’esistenza come una sfida, una chiamata a cui deve rispondere al meglio delle sue capacità. La vita diventa una serie attiva e stimolante di opportunità che possono essere colte.
Il libro di Vayikrà è definito anche la “Torà dei Kohanim” poiché si concentra sulle Halachot relative al lavoro dei kohanim nel Bet haMikdash. Si potrebbe pensare che ai nostri giorni, migliaia di anni dopo la distruzione del Bet haMikdash, questi insegnamenti possano essere considerati irrilevanti, ma quando si legge e si guarda al contenuto, si possono trovare lezioni sia ovvie che nascoste che si riferiscono a ogni persona in ogni tempo e in ogni luogo. Questo ci insegna che non c’è nulla nella Torà che sia irrilevante, c’è sempre qualcosa da imparare con implicazioni per situazioni diverse e lezioni da imparare anche da Halachot che si occupano di un’area specifica e mirata. Così, per esempio, quando nella Parashà di Vayikra, leggiamo del korban chattat (l’”offerta per il peccato”) portato al Bet haMiksash da una persona che ha peccato, possiamo imparare qualcosa. Questo sacrificio è unico in quanto è definito oleh veyored (“che va su e giù”), il che significa che può essere portato a diversi livelli in base alla situazione finanziaria della persona che ha peccato. Un uomo la cui situazione finanziaria è florida deve portare in sacrificio un animale, mentre un uomo la cui situazione finanziaria è debole deve portare in sacrificio due volatili. Un uomo la cui situazione finanziaria non permette di portare in sacrificio due volatili, deve portare in offerta una “mincha”, una piccola quantità di farina di grano, e con questo espia il suo peccato. Al di là della Halacha scritta esplicitamente, praticata ovviamente solo in presenza del Bet haMikdash, questa regola ci offre una morale che può guidarci in ogni aspetto della nostra vita.
Molti tendono a equiparare le persone e a guardare tutti dalla stessa prospettiva. Questo istinto di base ci fa pensare che quando abbiamo un certo obbligo, questo sia un obbligo anche per tutti gli altri. A prima vista, è difficile classificare le persone e interiorizzare il fatto che ognuno di noi è obbligato a fare cose diverse in base alle proprie capacità. Il principio che apprendiamo dalle leggi del korban chatat oleh veyored è che non è così. Dobbiamo guardare ogni persona dalla prospettiva che gli appartiene specificamente. Spesso abbiamo aspettative su noi stessi o sulla società che ci circonda per contribuire e investire in sforzi positivi. C’è spazio per tali aspettative e, in effetti, questo motiva molte persone ad agire in modo benefico, ma c’è anche un pericolo insito in questo approccio, poiché ogni persona è diversa e ogni persona ha capacità emotive, fisiche e finanziarie diverse.
Sarebbe un errore se ci aspettassimo che tutti agissero esattamente come agiremmo noi quando ci troviamo in una certa situazione in quanto nessuno è esattamente come noi e le capacità degli altri sono diverse dalle nostre. Le aspettative dovrebbero essere basate su una visione realistica della situazione e delle capacità dell’altro. Questo non vale solo per gli altri. Molte volte chiediamo a noi stessi cose che non siamo in grado di fare, e quando non siamo all’altezza degli standard che ci siamo prefissati, sperimentiamo sconfitte e fallimenti. Quando ci impegniamo e facciamo uno sforzo senza riuscire ad ottenere il risultato che desideriamo, dobbiamo renderci conto che le aspettative che ci siamo prefissati erano irrealistiche. Se le nostre aspettative fossero in sintonia con le nostre capacità, le raggiungeremmo sicuramente, un successo che ci incoraggerebbe e ci autorizzerebbe con ulteriori punti di forza ad andare avanti e continuare ad avere successo. Questa Parashà ci insegna l’approccio che dovremmo adottare nella nostra vita. Fare come Moshe, sentire la presenza di D-o nella nostra vita, cogliere le opportunità di crescita e sfruttare al meglio le nostre capacità, aiutando il prossimo se ce ne fosse bisogno, ad individuare le sue per contribuire alla sua crescita ed, in ultima analisi, al bene comune.