Parashat Vaetchanan – Mai disperare

12/08/2022 0 Di Redazione

La grande tragedia della vita di Moshè è stata il fatto che non ha potuto portare a termine la sua missione; Non avrebbe portato il popolo nella Terra Promessa. Potremmo dire che si tratta in realtà di due tragedie: A livello personale, è quasi inconcepibile che Moshè, il nostro più grande leader e insegnante, il nostro più fedele difensore, non veda la Terra d’Israele da vicino, che non sia perdonato e autorizzato a raccogliere i frutti dei suoi anni di incrollabile dedizione. D’altra parte, il destino di Moshè simboleggia la tragedia di un’intera generazione che aveva sperimentato le meraviglie dell’Esodo, la divisione del mare, la rivelazione sul Monte Sinai. Moshè implora di vedere la terra e D-o comprendendo per cosa prega Moshè, e, sebbene ordini a Moshè di desistere da ulteriori suppliche, acconsente che Moshè salga su un punto panoramico in cima ad una montagna e “veda la terra”, ma solo da lontano.


Moshè continua il suo discorso alla giovane generazione che presto entrerà in Eretz Israel ed è ormai ovvio che non si unirà per l’ultima tappa del viaggio. Moshè coglie quest’ultima occasione per mettere in guardia dalle conseguenze dell’idolatria e supplica di osservare i Comandamenti per assicurarsi che l’eredità non venga persa. Potremmo chiederci come le ultime parole di Moshè siano state accolte. Hanno trovato incongruo che Moshè fosse bandito da Eretz Israel? Erano scoraggiati dal pensiero che se Moshè non era stato all’altezza, sembrava impossibile che chiunque altro potesse avere successo?


Moshè sembra essere sensibile a questi dubbi. Quando inizia la sua ultima serie di insegnamenti, descrive la sua situazione personale con un linguaggio molto particolare, usando un insolito modo di dire che può darci un’idea del suo stato d’animo e permetterci di condividere la sua prospettiva. Mentre altre nazioni possono adorare il sole, la luna e le stelle, il popolo ebraico è diverso. “Ma riguardo a te, D-o stesso ti ha preso e ti ha fatto uscire dal crogiolo di ferro che era l’Egitto, perché tu diventassi la Sua nazione ereditaria, come sei oggi”. (Devarim 4:20) Sebbene l’immagine del crogiolo infuocato abbia catturato l’immaginazione di molti commentatori rimane una metafora duratura nel corso della storia ebraica, Moshè potrebbe aver avuto un’idea molto particolare in mente quando coniò questo modo di dire.


Rashi spiega che il riferimento al crogiolo significa che gli ebrei sono come l’oro. Due Chachamim del 19° secolo hanno spiegato a lungo questo passaggio, arrivando a conclusioni ampiamente divergenti: Rav Yaakov Zvi Meklenberg scrive che questa metafora si riferisce al processo di fusione con cui i metalli vengono purificati dalle scorie e spiega che il periodo della schiavitù in Egitto ha avuto questo stesso scopo: Gli ebrei furono sottoposti a un processo doloroso che li liberò dalle scorie in modo da permettere loro di andare incontro al loro destino svincolati da tutto ciò che li avrebbe trattenuti. Queste scorie, se rimaste, avrebbero fomentato ancora più inquietudine e ribellione, e sarebbero risultate nell’incapacità di ricevere la Torà o di adempiere al patto che avrebbero intrapreso come nazione. Rabbi Shimshon Raphael Hirsch ha nel suo commento un approccio diverso. Piuttosto che suggerire che c’erano delle impurità nella nazione ebraica che dovevano essere “bruciate” nella fornace ardente della schiavitù egiziana, Rav Hirsch vede il crogiolo come un’esperienza che era necessaria per dare forza e raffinatezza alla morale della nazione emergente. Il fuoco del crogliolo permise agli ebrei di distillare le loro qualità essenziali e di affinare la loro identità.


Questa visione del crogiolo può permetterci di comprendere le parole di Moshè: Il suo riferimento al crogiolo è il suo tentativo di evidenziare una delle caratteristiche che definiscono gli ebrei. Un popolo con una grande capacità di soffrire dotato di una profonda capacità di vedere le ripercussioni a lungo termine delle proprie azioni e capace di un’innata speranza nel futuro. La schiavitù in Egitto non era stata una sorpresa; Fu predetta ad Avraham, fu accettata da lui e dai suoi discendenti come parte di un patto a lungo termine. Lui e i suoi figli, il nucleo stesso del popolo ebraico, erano disposti a ssoffrire nel breve termine per ottenere qualcosa nel lungo termine. Solo un popolo con piena fiducia nel futuro, solo chi è disposto a rimandare la gratificazione in favore di un destino spirituale molto più grande, è capace di accettare un’alleanza di questo tipo. Moshè ci ricorda che il crogiolo dell’Egitto, l’esperienza della schiavitù, non ci ha spezzato, non ci ha sradicato come famiglia o come comunità e non ha corrotto la nostra morale; Non solo ci ha reso più forti, ma ci ha reso quello che siamo.


La storia ebraica, ci ricorda Moshè con le sue parole, si misura in millenni, non in minuti. Le sue parole servono come insegnamento perpetuo che tutti noi abbiamo quello che serve per permetterci di andare avanti. Nella nostra vita potranno esserci sempre delle battute di arresto, fatti più o meno gravi che possono accadere. Quello che ci insegna la nostra storia come popolo e che ci insegna Moshè con le sue parole è che nonostante tutto non bisogna disperare. Alle volte è necessario passare attraverso un crogiolo personale, superare determinate esperienze che ci servono da lezione e da formazione, ma sono esperienze che sono necessarie per permetterci di andare avanti. Non bisogna disperare, bisogna credere in un futuro migliore che sarà alla nostra portata grazie alle nostre esperienze e grazie alle nostre capacità uniche

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