Parashat Mattot – Mas’è – Dalla vita buona viene il buon vino

29/07/2022 0 Di Redazione

Nella Parashà di Mas’è, la Torà comanda di istituire sia ‘Are miklat (città-rifugio, dove gli assassini involontari potevano proteggersi dalle ritorsioni) sia ‘Are Levi’im (città di leviti). I due tipi di città sono in realtà interconnessi: Nel deserto, prima che esistessero le città-rifugio, l’accampamento dei Levi’im aveva lo scopo di accogliere gli assassini involontari (Zevachim 117a). Inoltre, successivamente, tutte le 42 città dei Levi’im in Eretz Israel servivano da città-rifugio (Massekhet Makkot 13a). Dobbiamo quindi comprendere la connessione tra le funzioni di questi due tipi di città.


La Torà collega l’obbligo dell’esilio dell’assassino involontario con la morte del Kohen Gadol (Sommo Sacerdote). “Poiché nella sua città-rifugio abiterà fino alla morte di Kohen Gadol, e dopo la morte del Kohen Gadol, l’omicida tornerà nel paese della sua eredità” (Bamidbar 35:28). Apparentemente, le responsabilità del Kohen Gadol non si limitano al servizio rituale nel Santuario in quanto egli è responsabile anche dello stato spirituale della nazione e di garantire che l’atmosfera spirituale del Santuario influenzi positivamente il comportamento e la morale di tutti. Pertanto, quando la situazione sociale è tale che il valore della vita umana non è abbastanza alto, il leader spirituale deve assumersi parte della colpa. In questo senso anche l’assassinio involontario richiede l’espiazione del leader e solo quando il leader muore, chi si è macchiato di questo delitto, per quanto non intenzionale, può tornare a casa.
Ma dove vive l’assassino durante l’esilio? È sufficiente che cambi residenza per essere incoraggiato a riflettere sulla sua situazione? La Torà insegna che questo non è sufficiente. Questa persona deve vivere in un luogo dove vivono coloro che sono responsabili del livello morale e spirituale della nazione. Questo ha una valore doppiamente positivo in quanto all’assassino viene quotidianamente ricordata la necessità di migliorare i suoi valori e, come spiega il Sefer Hachinuch (408), la santità della terra delle città dei Levi’im aiuta a espiare per le sue colpe grazie all’influenza che riceve dalla società nella quale vive. Inoltre, l’interazione tra l’assassino e i Levi’im, obbliga i Levi’im a ricordare la loro responsabilità di influenzare l’assassino, così come potenziali futuri assassini in tutta la società. Ai Levi’im in questo modo viene ricordato come essere dei veri leader e l’imporanza della loro influenza positiva nella società.


La mitzvà relativa a queste città era di istituire sei di queste città, tre in Eretz Yisrael vera e propria e altre tre sulla sponda orientale del fiume Giordano, nelle zone che erano abitate dalle tribù di Reuven, Gad e metà della tribù di Menashè. La Ghemarà in Masekhet Makkot (9b) racconta che i due insiemi di città erano paralleli l’uno all’altro. Ciò significa che le tre città sui rispettivi lati del fiume Giordano erano allineate da nord a sud, parallele alle tre città sul lato opposto del fiume. Nel descrivere questo allineamento, la Ghemarà commenta: “[Le città] erano parallele tra loro come due filari in una vigna”.
Ci si potrebbe chiedere se l’analogia con una vigna abbia un significato specifico. Perché la Ghemarà paragona le città-rifugio a due filari paralleli di una vigna?


Yeshayahu, in una delle sue profezie più famose (5,1-7), paragona la condizione ideale degli ebrei a quella di una vigna. Nella sua profezia descrive come D-o si occupa del popolo ebraico come una persona che pianta una vigna, investendo molti sforzi per garantire che tutto sia perfetto, sgombrando il terreno, piantando e persino costruendo un torchio per produrre vino di ottima qualità dall’uva prodotta dalle viti. La vigna rappresenta l’obiettivo che tutti noi dobbiamo sforzarci di raggiungere, l’obiettivo di produrre “vino di ottima qualità”, di portare gioia, pace e giustizia in un mondo difficile come il nostro. In quest’ottica, possiamo forse fornire una possibile spiegazione per il confronto della Ghemarà tra i “filari” delle città-rifugio e i filari di una vigna. I Chachamim, tramite questo paragone, potrebbero alludere al fatto che anche nelle condizioni ideali e incontaminate rappresentate da una vigna, dobbiamo affrontare circostanze sfortunate come un omicidio accidentale o situazioni difficili che si presentano nella nostra vita. La condizione ideale non è quella in cui non ci sono problemi difficili, ma quella in cui i problemi difficili vengono affrontati in modo responsabile, serio ed etico. Se pensiamo alla “vigna”, alla vita ideale della Torà, come a una realtà perfetta dove nulla va mai storto, dove non si presentano mai sfide, corriamo il rischio di disperare e di rinunciare a tutta l’impresa una volta che ci rendiamo conto che una tale realtà non esiste e non esisterà. La “vigna” che dobbiamo piantare, la vita ideale verso la quale tendere, richiede un duro lavoro e spesso presenta situazioni difficili da affrontare.


Ed è esattamente qui che la Torà ci viene incontro e che ci insegna come affrontare la nostra vita. Attraverso l’osservare le mitzvot, attraverso la fondazione di istituti giusti e corretti, attraverso la giustizia, attraverso gli atti di chesed, attraverso la bontà. Queste cose sono quelle che permettono ad ognuno di riflettere su se stesso, di migliorarsi, di prendersi le proprie responsabilità a qualsiasi livello egli si trova, di influenzare il prossimo in positivo. Attraverso questo lavoro collettivo, potremo stabilire una società giusta, equilibrata, in grado di produrre solo cose buone come il vino prodotto da una vigna di uva pregiata.

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