Parashat Shofetim – Dignità di ognuno, dignità di tutti
La Torà affronta la questione della responsabilità nel caso in cui un individuo venga trovato privo di vita in campo aperto attraverso un rituale piuttosto elaborato, un processo dimostrativo che deve essere sia educativo che, si spera, trasformativo: la distanza dalla scena del crimine è attentamente misurata con una corda e la città più vicina è accusata di indifferenza, di negligenza criminale che rasenta la complicità. L’indifferenza ha contribuito a questa tragedia e gli anziani della città devono lavarsi le mani e dichiarare la propria innocenza, se la loro coscienza lo consente. Forse questo impedirà il prossimo omicidio. In una Parashà della Torà che discute delle grandi e importanti istituzioni della vita pubblica, l’individuo può essere facilmente dimenticato.
Parashat Shofetim stabilisce la struttura della polis ebraica: il sistema giudiziario e le forze di polizia, i poteri e le limitazioni di re e profeti. L’inclusione delle linee guida per casi come quello del vagabondo trovato senza vita nello specifico in questo contesto ci insegna un potente principio di fondo: lo scopo singolare di tutti gli strumenti di potere è proteggere l’individuo, specialmente i membri più deboli e più anonimi della società. Se non proteggiamo i deboli e i vulnerabili, che tipo di società abbiamo creato? Il re e tutti i suoi cavalli e tutti i suoi uomini non sono semplicemente simboli di orgoglio civico o nazionale. Il loro scopo è proteggere le persone, creare una moralità “dall’alto verso il basso”. Questo è il loro mandato, la loro ragion d’essere. Questa stessa Parashà comanda ai re di Israele di mantenere sempre il loro vero scopo sotto i loro occhi: il re deve portare la Torà nel suo cuore e nelle sue braccia. La Torà pone chiari limiti su pomposità, circostanza, protocollo e cerimonia. Le responsabilità superano di gran lunga i privilegi dei re e dei leader ebrei.
Per molte persone, l’essenza dell’ebraismo sono i suoi insegnamenti morali; per altri, il rituale sembra più importante. Il rabbino Joseph Soloveitchik, illustra il concetto ebraico di equilibrio tra questi due aspetti: è noto che ai sacerdoti è comandato di evitare il contatto con l’impurità della morte. Non partecipano ai funerali, non possono visitare i cimiteri, ad eccezione che per i loro familiari più stretti, ma comunque seguendo un rituale specifico e con forti limitazioni. Il Sommo Sacerdote non può contaminarsi nemmeno per quelli a lui più vicini. Tuttavia, il Talmud insegna che quando il Sommo Sacerdote incontra un cadavere nei campi, gli viene comandato di portare personalmente il corpo alla sepoltura. Anche se ci si trovasse alla vigilia di Yom Kippur, quando le speranze e le aspirazioni spirituali dell’intera nazione sono tutte focalizzate su di lui e incanalate attraverso di lui, se dovesse trovare il cadavere di un vagabondo umile e anonimo, il Sommo Sacerdote deve contaminarsi, raccogliere il corpo e fisicamente portare la persona a una degna sepoltura. Rav Soloveitchik basandosi su questo comandamento sottolinea come questo ci insegna che la dignità di un uomo che potrebbe essere stato disprezzato, un uomo che non sente più alcun dolore, ha la precedenza sul più importante partecipante alla scena più carica spiritualmente dell’anno nel calendario ebraico, il servizio dello Yom Kippur. La dignità umana è nettamente più importande del rituale. Il vagabondo senza nome è più importante del Sommo Sacerdote.
A volte dimentichiamo la grande umanità che sta alla base dell’ebraismo che si esprime attraverso le sue regole; a volte guardiamo altrove. A volte il vagabondo viene spinto appena oltre il limite della nostra visione periferica,. Attraverso questo passo la Torà ci insegna che non è così. Dobbiamo imparare dal Sommo Sacerdote, scendere dal nostro piedistallo, contaminarci e portare gli individui più deboli della nostra società ad una dignità che permetta loro una vita normale. La Torà è piena di insegnamenti a difesa del più debole, delle persone in difficoltà, proprio per evitare di arrivare ad una tragedia come quella del ritrovamento di un corpo senza vita in campo aperto.
Aiutando e comprendendo il prossimo a prescindere dal suo status sociale, evitando il lashon harà, la maldicenza ed evitando la sinat khinam, l’odio gratuito, contribuiamo tutti a fare sì che non si creino situazioni pericolose. Elul è uno dei mesi più indicati per correggere eventuali nostri limiti e cercare sempre di creare, attraverso le nostre parole e le nostre azioni, l’armonia nella nostra società e nella nostra comunità. Potremo così iniziare un nuovo anno in cui potremo essere puliti come angeli di fronte a D-o e creare qualcosa di costruttivo per il nostro futuro.