Parashat Vaerà – È la nostra capacità di scegliere che ci rende umani
Uno dei punti di cui i Chachamim discutono di più è la questione di come Hashem possa rimuovere il libero arbitrio del faraone. Quello di cui si discute però molto meno è della posizione del faraone prima che Hashem intervenga. All’inizio, ben prima che Hashem intervenga in qualsiasi modo con il faraone, la Torà ci racconta già della risposta personale del faraone stesso alla richiesta di Moshe e Aharon di consentire al popolo ebraico di andarsene. E in tutte queste conversazioni, scopriamo che la Torà descrive le risposte del faraone con riferimenti al suo lev, il suo cuore, ma specificamente con due diverse caratterizzazioni del suo cuore: “Vaychazek lev Par’ò” e “Vavchbad lev Par’ò“. Entrambe vogliono significare che il faraone si rifiutò di ascoltare. Se è così, per quale motivo la Torà usa due parole diverse per esprimere lo stesso concetto? Qual è la differenza tra questi due termini?
Rav Joseph B. Soloveitchik spiega che queste sono, in effetti, due risposte molto diverse. Chizuk implica il concetto di forza, vigore, fermezza. Nel nostro contesto, si riferisce al potere di resistere a qualcosa. Se riesco a resistere all’assalto del nemico, se riesco a essere abbastanza forte da non cedere, allora sono chazak, sono forte, e questo può valere sia per la forza fisica che per la forza di carattere. Kaved, tuttavia, è una descrizione molto diversa. Quando qualcosa è kaved, significa che è pesante. Kaved non implica vigore, fermezza o forza, ma piuttosto peso morto. Il fatto che qualcuno o qualcosa sia pesante non lo rende necessariamente forte. Si tratta, in effetti, di quella pesantezza che può appesantirci e renderci ancora più deboli. Cosa significa dunque quando leggiamo “vaychbad lev Par’ò” che il cuore del Faraone era pesante?
Questo termine appare anche in un’altra occasione, in Yechezkel, dove Hashem dice ad Am Yisrael: “Vaasirotì et lev haeven” Rimuoverò il tuo cuore di pietra e ti darò invece un lev bassar, un cuore di carne. Un lev even è un cuore insensibile, impermeabile, che non risponde alla chiamata della propria coscienza. Quando la Torà si riferisce al Faraone come a qualcuno con un lev kaved, significa che è semplicemente chiuso, che non risponde alle chiamate di Moshè e Aharon. In cosa consiste allora il chizuk halev di cui parla la Torà riferendosi al Faraone? Il rafforzamento del proprio cuore?
Questo termine significa che il cuore del faraone, a volte, diventava sensibilizzato, persino malleabile. C’erano momenti in cui il faraone si svegliava e si rendeva conto che forse avrebbe dovuto riconsiderare la posizione e la fermezza che si ostinava a mantenere. Dopo aver sperimentato la piaga di Barad, la grandine, il Faraone sembra avere un risveglio, una consapevolezza che diveva cambiare atteggiamento. Il faraone manda a chiamare Moshè e Aharon e dice loro: “Ho peccato. Hashem è giusto e io e la mia nazione siamo malvagi. Prega Moshè, liberaci da questa grandine e vi libererò come mi richiedete di fare” Eppure, non appena la grandine finisce, la Torà ci riferisce: “Il cuore del faraone divenne forte (Vaychezak lev Par’ò), e non mandò via il popolo“. Chizuk halev è un tipo di rifiuto particolare. È quando il faraone riesce a vedere la sfida morale. È sensibile al fatto che potrebbe essere diretto sulla strada sbagliata e dovrebbe tornare indietro, ma nonostante ciò si rinforza, rifiutandosi di cedere anche alla voce interiore che gli dice che sta facendo la scelta sbagliata. Ma allora perché rifiuta?
Rav Solovetchik sostiene che, almeno in parte, quello che muoveva il faraone erano ragioni economiche. L’intera economia egiziana dipendeva dal lavoro degli schiavi. Liberare gli ebrei avrebbe distrutto l’economia dell’Egitto. Quindi, mentre il faraone, a volte, riconosceva che Hashem era, in effetti, al comando, e che non aveva davvero alcuna possibilità di competere, la pressione per mantenere la sua posizione e sostenere l’economia del suo regno era eccessiva, e il faraone era costretto a rafforzarsi, per trincerarsi e rifiutarsi di lasciare andare gli ebrei.
Questa spiegazione porta alla luce un’altra idea che riguarda non solamente il cuore del faraone, ma anche nostri cuori. La Ghemarà nel Trattato di Berachot parla di una persona che è in pericolo e non ha tempo di recitare l’intera sezione centrale dell’Amidà. In considerazione di questo pericolo, quindi, gli viene detto di recitare una versione breve delle dodici berachot centrali, chiamata Havinenu. Havinenu è un paragrafo che contiene dodici frasi brevi, ciascuna delle quali fa riferimento a una delle dodici berachot che compongono la parte centrale dell’Amidà. Ad un certo punto di questa tefillà, troviamo la richiesta ad Hashem: “Mol et levavenu leyiratecha”, “rimuovi la copertura del nostro cuore così possiamo temerTi”, parte che è al posto della berachà “Hashivenu”, una tefillà relativa alla teshuvà. A prima vista, sembra una preghiera che chiede a Hashem di aiutarci a scegliere di essere persone timorate di D-o. E, in effetti, questa tefillà prende in prestito il linguaggio da un versetto nella Parsahà di Nitzavim: “Hashem circonciderà il tuo cuore e il cuore dei tuoi figli per amare Hashem con tutto il tuo cuore e la tua anima“. Questa idea sembra essere poco chiara: Come possiamo chiedere a Hashem di aiutarci a fare teshuvà? Ciò potrebbe significare toglierci la bechirà chofshit, il nostro libero arbitrio.
I Chachamim spiegano il significato di questo versetto in base alla stessa idea che abbiamo menzionato prima quando si parla del faraone. Cos’è un lev arel, un cuore coperto? È lo stesso di un lev even, un cuore di pietra. Se ho un lev even, un cuore di pietra, significa che mi sono precluso delle scelte. Sono così tanto appesantito da elementi diversi nella mia vita che non riesco nemmeno a considerare altre opzioni. Un lev even, quindi, non è un cuore che fa cattive scelte, ma un cuore che non fa scelte. Quando chiediamo ad Hashem di rimuovere l’orlat lev, la copertura del nostro cuore, non stiamo chiedendo a Hashem di fare delle scelte per noi, al posto nostro, ma Gli stiamo chiedendo di concederci il risveglio, l’opportunità, la sensibilità per aprirci e riconoscere le scelte giuste tra le opzioni che abbiamo di fronte. In quei momenti, potremmo ancora fare delle scelte sbagliate.
Il fatto che possiamo provare disagio di fronte al concetto che Hashem possa togliere il libero arbitrio al faraone, è qualcosa di positivo perché significa che ci rendiamo conto che è la nostra capacità di scegliere che ci rende umani. E, più di questo, è la nostra capacità di scegliere che ci consente di crescere. Ci sono momenti nella nostra vita in cui il potere di scelta e la libertà di crescere che deriva dalla scelta diventano più difficili da raggiungere. Ci abituiamo così tanto al modo in cui viviamo le nostre vite, al ritmo delle nostre giornate e delle nostre settimane, che iniziamo a perdere di vista quella libertà, le opportunità di crescita che sono davanti a noi. Lentamente nel tempo, senza nemmeno rendercene conto, i nostri cuori possono trasformarsi in un lev even, un cuore che diviene man mano meno sensibile alle scelte che ci si presentano ogni giorno. L’obiettivo, quindi, non è unicamente decidere di fare le scelte giuste. Il primo passo è iniziare a scoprire i nostri cuori, consentendo al nostro lev even di diventare un lev bassar, un cuore aperto e disposto a vedere e sentire le opportunità di crescita che ci si presentano spesso nella nostra vita. Il faraone era caratterizzato dal lev kaved, il lev even, la riluttanza a permettersi e a prendere piena consapevolezza delle scelte che esistevano di fronte a lui. È nostro compito, quindi, prenderne nota ed imparare a non imitare il comportamento del faraone. Viviamo le nostre vite spesso in modalità automatica, con il risultato di indurire il nostro cuore, di non essere in grado di distinguere le scelte che abbiamo di fronte, precludendoci il libero arbitrio. La tefillà che rivolgiamo ad Hashem di liberare il nostro cuore, è quindi la richiesta di aprirci gli occhi e di darci la possibilità di compiere le sceglie giuste. Possa Hashem esaudire le nostre tefillot liberando il nostro cuore dai pesi che, alla fine dei conti, finiscono per danneggiarci.