Parashat Pinechas – Costruire la vita
Nella Parashà di Pinechas troviamo la richiesta avanzata dalle figlie di Tzelofchad che sono diventate il simbolo delle donne che hanno combattuto per i diritti delle donne in tutte le generazioni; In effetti le figlie di Tzelofchad, sono riuscite a trasformare le leggi sull’eredità, per consentire alle figlie femmine di ereditare in assenza di eredi maschi.
I Chachamim del Talmud, tuttavia, non si riferiscono a loro come paladine dell’uguaglianza; sono piuttosto descritte come “donne sagge, donne in grado di esporre, donne giuste” (chachmaniot, darshaniot, zidkaniot, Bavli Bava Batra 119b). Il Kli Yakar concorda ed espande il concetto: nell’interpretare il comando di D-o a Moshè che abbiamo letto solo poche settimane fa, “Manda uomini per esplorare la Terra di Cana’an” (Bamidbar 13:2), infatti, suggerisce che D-o stesse parlando sarcasticamente. Il sottinteso di questo pasuk è: So che manderete i vostri uomini e il risultato sarà disastroso, ma se manderete solo donne, la situazione potrebbe essere salvata. Il testo su cui poggia questa interpretazione è l’impegno delle figlie di Tzelofchad. Per il Kli Yakar, ciò che caratterizzava queste donne non era tanto il loro femminismo, quanto il loro amore per la Terra di Israele. Questo emerge anallizando anche nel testo della Torà. La causa che portano davanti a Moshè inizia con: “Perché sminuite il nome del nostro [defunto] padre non dandoci i diritti di eredità sulla sua terra?” Non si stanno concentrando su un’ingiustizia perpetrata contro di loro, ma piuttosto su un’ingiustizia fatta al loro defunto padre. Cosa significano queste parole?
È scritto in Kohelet Rabba che ogni individuo ha tre nomi: il nome che gli hanno dato i suoi genitori, che di solito esprime le aspirazioni che avevano per lui, il nome con cui lo chiamano i suoi amici, che esprime come lo vedono i suoi contemporanei, e il nome che si dà, che esprime il grado in cui è riuscito a superare i propri limiti. C’è però un quarto nome, che è forse il più importante: il nome che l’individuo lascia dopo la sua morte. Il modo più ovvio in cui questo nome viene portato è attraverso i figli, in ebraico banim (singolare ben). La parola ben condivide le stesse lettere della radice della parola livnot, costruire. Noi stessi costruiamo e seminiamo per il futuro attraverso i bambini che lasciamo, o attraverso gli studenti o le persone che abbiamo influenzato. Nelle parole dei Chachamim: “‘E insegnerai la Torà ai tuoi figli’, che si riferisce ai tuoi studenti, che sono considerati come i tuoi figli”. Coloro che abbiamo istruito o che abbiamo semplicemente incontrato, che portano avanti i valori e lo stile di vita con cui abbiamo vissuto, sono la nostra continuazione nel futuro. E naturalmente da una prospettiva ebraica, il nostro edificio eterno deve poggiare sulle fondamenta della tradizione ebraica, attraverso la stessa parola usata in ebraico per la pietra, even, che è un amalgama delle parole av e ben, padre e figlio. Questo edificio eterno ha avuto origine nel Giardino dell’Eden, ha ricevuto il suo carattere e la sua missione sul Monte Sinai e anticipa il futuro in un mondo di pace. Ogni ebreo dovrebbe ambire ardentemente ad essere una pietra nella costruzione di questo edificio eterno.
La Torà racconta la tragedia di un individuo che muore senza figli; idealmente, suo fratello deve sposare la vedova e il primo figlio nato deve assumere il “nome” del defunto e ricevere il suo patrimonio – una porzione della terra in Israele – in modo che il “nome” del defunto non venga cancellato dal popolo di Israele (Devarim 25:7). L’eternità ebraica si basa sulla continuazione del nome del defunto, espressa dal mantenimento delle sue tradizioni, così come dal radicamento nella terra. Se quindi è vero che le figlie di Tzelofehad fecero un grande passo avanti in favore dei diritti delle donne ottenendo la possibilità di preservare il patrimonio del padre, è anche vero che a la loro motivazione era quella di garantire l’eternità del nome del padre, di fare in modo che il suo nome non venisse ridotto o cancellato nella costruzione dell’eternità ebraica, o nella sua capacità di trasmettere (morasha) sia le sue tradizioni che la sua porzione di eredità alle sue figlie. Questo è il concetto su cui si basano i Chachamim del Talmud quando lodano le figlie di Tzelofehad come donne sagge, dotte e giuste. Queste donne conoscevano profondamente la Torà di Moshè e i versetti che trattano l’ “yibum”, il matrimonio di un uomo con la vedova del fratello senza figli. “Se siamo considerate come figli, e quindi nostro zio non può sposare la nostra madre vedova, allora dacci una parte del patrimonio di nostro padre come avresti fatto se fossimo stati maschi. E se non possiamo ereditare, allora nostra madre deve essere in grado di entrare in un matrimonio levirato (yibum). Immediatamente”, Moshè portò la questione davanti a D-o, e ricevettero l’eredità.” (Bava Batra 119b).
Nel loro perorare la propria causa le figlie di Tzelofchad ci insegnano qualcosa di molto importante. La mera applicazione delle Mitzvot in maniera asettica non sempre è sufficiente. Il nostro lavoro quotidiano deve essere incentrato nel costruire la vita, nel costruire la continuità attraverso pietre che permettano la costruzione di un edificio solido ed eterno. Possiamo raggiungere questo risultato attraverso il lavoro su noi stessi, migliorando dove siamo carenti, e attraverso l’insegnamento ai nostri figli, ai nostri studenti, o attraverso l’influenza positiva sul prossimo che si ottiene con la shemirat mitzvot ma anche attraverso il nostro comportamento. In questo modo potremo contribuire non solo a migliorare il mondo intorno a noi, ma anche a perpetuare la nostra eredità nel tempo.