Parashat Tzav – Non c’è fuoco dall’alto, senza il fuoco dal basso
La Parashà di Tzav, affronta le leggi dei sacrifici trattate nella Parashà di Vayikrà, descrive i preparativi fatti da Moshe, da Aharon e dai suoi quattro figli, prima della dedicazione del Mishkan di cui leggeremo in dettaglio nella Parashà della prossima settimana. All’inizio della Parashà, troviamo un direttiva riguardante l’ordine di lavoro nel Mishkan. I Chachamim ritengono necessaria una spiegazione, soprattutto alla luce del fatto che la Torà riporta e sottolinea questa direttiva due volte. Questo è ciò che D-o dice a Moshe: “E il fuoco sull’altare arderà su di esso; non si spegnerà… Un fuoco continuo arderà sull’altare; non si spegnerà”. (Vayikra 6, 5-6). Il contenuto di questa direttiva insolitamente enfatizzata, è che dopo che il Mishkan e l’Altare al suo interno sono stati stabiliti, un fuoco deve sempre essere acceso sull’altare. Questa Halacha richiede spiegazione anche alla luce del fatto che nella Parashà di Shemini viene detto che un fuoco Celeste appare sull’altare senza l’intervento umano.
Il Talmud spiega: “Anche se il fuoco scendesse dal cielo, il comandamento è di farlo portare da una persona comune” (Yoma 21). In altre parole, non c’è contraddizione tra il fuoco che scende dal cielo e il comandamento di portare il fuoco creato dall’uomo, entrambi sono necessari. Ma che bisogno c’è del fuoco prodotto dall’uomo quando il fuoco celeste appare sull’altare? Che valore ha il fuoco di una persona comune quando c’è il fuoco dal cielo?
Una risposta a questa domanda si trova nel Sefer Hachinuch: “È una cosa nota tra noi e ogni persona saggia che i grandi miracoli che D-o fa per gli esseri umani nella Sua grande gentilezza saranno fatti sempre in modo nascosto, e queste cose (i miracoli) sembrano fatte un po’ come se fossero realmente naturali o quasi naturali… E per questo ci è stato comandato di accendere un fuoco sull’Altare, anche se scende il fuoco dal cielo, per nascondere il miracolo”. Questa idea è supportata in molti altri passi della Torà in cui vengono descritti miracoli che deviano dalle leggi della natura ma che furono nascosti da fenomeni naturali. Un esempio è la divisione del Mar Rosso, forse il più grande e più pubblico dei miracoli della Torà, avvenuto in seguito ad un forte vento che soffiò e asciugò l’area in cui Am Yisrael avrebbe attraversato il mare. Questa spiegazione contiene un principio importante per comprendere le relazioni tra l’uomo, il mondo e D-o. A prima vista, quando D-o fa un miracolo, è interessato che questo venga riconosciuto. Così è nelle storie di tutte le nazioni e religioni. I miracoli influenzano la persona che li vive e cambiano il suo comportamento. Nell’ebraismo, però, esiste un concetto fondamentale e significativo: La libertà di scelta. Una persona che ha vissuto un miracolo che devia completamente dalle leggi della natura, che indica chiaramente una mano guida che agisce con saggezza e abilità infinita, non potrebbe in seguito avere la libertà di agire contro Colui che controlla completamente tutta la natura. Quell’uomo sarebbe incapace di considerare una trasgressione. Si può dire che a chiunque viva un miracolo manifesto sia stata tolta la libertà di scelta, poiché sentirà di dover obbedire ai comandamenti del creatore del miracolo. Ci potremmo però chiedere, D-o non è interessato che l’uomo adempia ai Suoi comandamenti? La risposta è sorprendente: No! D-o è interessato che l’uomo scelga di adempiere ai Suoi comandamenti e non all’obbedienza per mancanza di scelta, pertanto è stato dato il comandamento di accendere un fuoco sull’altare, nonostante accanto al fuoco opera dell’uomo brucia un fuoco celeste. In questo modo non si verifica la situazione in cui l’uomo vede il fuoco che appare da solo in modo innaturale e, per questo, la sua libertà di scelta viene lesa. La libertà di scelta ci pone di fronte alla piena responsabilità delle nostre azioni e a scegliere il bene.
Anche quando scegliamo ciò che è sbagliato non tutto è perduto: Questo Shabbat leggeremo l’Haftarà di Shabbat Parà, nella quale Yechezkel riporta: “Io aspergerò su di te acqua pura e sarai purificato; ti purificherò da ogni tua contaminazione e da tutti i tuoi idoli” illustrando la profonda metamorfosi spirituale delle persone attraverso il simbolismo dell’acqua. Cosa c’è nell’acqua che funge da catalizzatore per tale rinnovamento spirituale? L’acqua possiede una capacità unica di passare dallo stato solido al liquido, al gassoso e viceversa. Questa caratteristica si estende oltre il regno fisico, influenzando anche l’evoluzione spirituale. La fluidità dell’acqua suggerisce che possiamo cambiare, non siamo esseri statici, ma siamo capaci di crescere e svilupparci nelle varie dimensioni della vita. Invece di rimanere bloccati in uno stato di impurità, abbiamo la capacità di cambiare il nostro status. Ci purifichiamo attraverso l’immersione in acqua. In Bereshit, Rashi interpreta “Shamayim” come “Sham Mayim” – che significa “c’è acqua”, mentre il Ramban suggerisce che derivi da “Shem Shekara Hashem Mayim” – il nome con cui D-o chiamò l’acqua. L’acqua è considerata un elemento celeste, un frammento di Shamayim sulla Terra. Riflettere sul ciclo dell’acqua, trascende una mera lezione scientifica per rivelare che l’acqua che incontriamo è parte della stessa acqua celeste presente sin dai sei giorni della creazione. Questa realizzazione sottolinea il rinnovamento intrinseco nel nostro mondo ed enfatizza il potenziale di trasformazione sia fisica che spirituale. Durante i periodi difficili in cui è naturale sentirsi intrappolati o bloccati, possiamo trarre ispirazione dal profondo messaggio dell’acqua, riconoscendo la nostra capacità di trasformazione, possiamo aspirare a raggiungere maggiori vette spirituali portando il nostro fuoco e potendo così meritare il fuoco celeste, le berachot di D-o.