Parashat Mikketz – Riconoscere il bene anche nelle avversità
La fine della Parashà di Mikketz, termina lasciando una storia a metà, con il destino di Binyamin in bilico, piuttosto che con Yosef che si rivela ai fratelli. Per comprenderne il motivo è necessaria un’analisi approfondita. Rabbenu Yona scrive in Sha’arei Teshuva: Quando qualcuno riceve ciò che considera un castigo di D-o e, come conseguenza, migliora le sue vie, è giusto che si rallegri delle sue sofferenze, perché queste gli hanno portato un grande beneficio, e dovrebbe ringraziare D-o come farebbe per altri successi, e chi confida veramente in D-o dovrebbe sperare in mezzo alla sua angoscia che l’oscurità sarà la causa della sua luce… Come dissero i nostri Saggi: “Se non fossi caduto, non avrei potuto rialzarmi; Se non fossi stato nelle tenebre, non ci sarebbe stata luce per me” (Midrash Tehillim 22).
Non celebriamo solo la nostra salvezza, ma anche la sofferenza che ha reso necessaria quella salvezza. La sofferenza e la liberazione devono essere viste come un’unità indivisibile. Con le debite differenze, se un medico deve rompere un braccio per risistemarlo adeguatamente, merita un ringraziamento. Allo stesso modo, dobbiamo riconoscere la mano provvidenziale di D-o nella nostra sofferenza così come nella nostra liberazione.
Lo Sfat Emet spiega che i giorni di Chanukka erano designati come giorni di lode e ringraziamento: Lode per la salvezza miracolosa e ringraziamento per la sofferenza che l’ha preceduta. Pertanto, nella preghiera di Al haNisim che viene aggiunta durante Chanukka, non solo ringraziamo D-o per i Suoi miracoli e la liberazione, ma anche per le battaglie. Il Talmud (Shabbat 13b) dice che coloro che componevano Megillat Ta’anit (l’elenco dei giorni che commemoravano le liberazioni miracolose per il popolo ebraico durante il periodo del Secondo Tempio) sapevano apprezzare il coinvolgimento di D-o nelle avversità e potevano quindi collocare le liberazioni nella giusta prospettiva. La nostra incapacità di percepire il divino nella nostra sofferenza è il risultato della nostra prospettiva limitata. Il Talmud (Pesachim 50a) pone una domanda relativamente al versetto: “In quel giorno D-o sarà Uno e il Suo Nome Uno” – “D-o e il Suo Nome non sono forse Uno adesso?” Il Talmud risponde che in questo mondo recitiamo le benedizioni, hatov vehametiv, sulla buona sorte e dayan haemet sulla cattiva, ma nel mondo a venire reciteremo solo hatov vehametiv. Nel mondo a venire, quando guarderemo con il senno di poi, capiremo che tutte le disgrazie su cui abbiamo recitato la benedizione dayan haemet sono accadute per il nostro bene, e allora reciteremo hatov vehametiv.
Quando Moshè chiede a D-o di spiegare la sofferenza dei giusti e la prosperità dei malvagi, D-o risponde: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non potrai vederlo” (Shemot 33:23). Il Ktav Sofer spiega: “La mia schiena – quando il mondo raggiungerà il suo completamento, allora capirai, col senno di poi; Ma il mio volto – con lungimiranza, man mano che gli eventi si svolgono, non potrai comprendere”. Dobbiamo, dice il Talmud, recitare la berachà dayan haemet con la stessa gioia con cui recitiamo la benedizione, hatov vehametiv. Questo rappresenta la più alta forma di fede, un livello molto difficile da raggiungere.
Ma se riconosciamo che ogni avversità è per il nostro bene, perché non recitare la berachà hatov vehametiv su tutto ciò che accade? La risposta è che dobbiamo funzionare contemporaneamente su due livelli distinti. Dal punto di vista del nostro essere fisico, siamo vincolati dal tempo e quindi viviamo le avversità come tali. Allo stesso tempo, la nostra anima trascende il tempo, e quindi interiormente siamo consapevoli che quello che ci è capitato alla fine si rivelerà essere successo per il nostro bene. Il vero significato della berachà dayan haemet è che D-o è il giudice della verità. Solo Lui può determinare come la verità alla fine verrà rivelata: A volte ciò avverrà in modi chiari, a volte in modi che ci risultano sfuggenti e confusi. Ora possiamo comprendere la distinzione di Nachum Ish Gamzu, così chiamato perché rispondeva a ogni avversità con le parole: “Anche questo è per il bene”. Se siamo tenuti a credere che tutto ciò che proviene dal Cielo è per il bene, in cosa consiste la speciale distinzione di Nachum Ish Gamzu? La risposta è che è sufficiente riconoscere che dal punto di vista di D-o tutto è buono, tuttavia è consentito reagire alle avversità dalla propria prospettiva limitata. Nachum Ish Gamzu, tuttavia, in realtà considerava le avversità un bene, un risultato ben oltre il requisito.
Ora possiamo provare a rispondere alla domanda iniziale: La storia di Yosef e dei suoi fratelli, dice il Chafetz Chaim, contiene una lezione importante per tutti noi. Spesso immaginiamo che quando arriverà il Mashiach, saranno necessari giorni se non settimane per spiegare le tante tragedie accadute nella nostra storia, ma non è così. Con solo due parole, “Io sono Yosef” – Yosef chiarisce tutte le domande dei suoi fratelli. Allo stesso modo, quando D-o si rivelerà più manifestamente di quanto fa oggi e il quadro completo del mondo diventerà noto, saranno necessarie solo due parole: “Io sono D-o”. I Chachamim, interrompendo la storia al termine della Parashà di Mikketz ci vogliono insegnare che anche quando viviamo periodi difficili, come singoli o come comunità, dobbiamo avere la capacità di aspettare, di credere che alla fine andrà tutto per il meglio e, nel frattempo, migliorare noi stessi, crescere spiritualmente e come individui, per aiutare a squarciare le tenebre più in fretta e riportare luce in questo mondo.