Parashat Devarim – Avere “buon occhio”
Nella Parashà di Shelach viene raccontato per la prima volta degli esploratori inviati per vedere la Terra di Israele e valutarne la vulnerabilità alla conquista. D-o sembra irritato dalla richiesta dell’invio degli esploratori (Rashi, Bamidbar 13:2) e giura di lasciare agli ebrei “spazio per sbagliare” attraverso il rapporto degli stessi esploratori. Nella Parashà di Devarim, la Torà sembra rielaborare il racconto, descrivendo il popolo come pronto ad entrare nella Terra di Israele. Moshè dice agli ebrei (1:22-33): “E tutti voi vi siete avvicinati a me e avete detto: ‘Mandiamo uomini davanti a noi ed essi esploreranno la Terra e ci riporteranno quello che hanno visto: Il modo in cui noi entreremo, e le città in cui dovremmo venire’. La cosa era buona ai miei occhi, così ho scelto dodici uomini tra di voi…”
La domanda che sorge da queste descrizioni è evidente: Moshè era l’unico che potesse agire come fedele messaggero di D-o per gli ebrei. Come dicono i Chachamim, “La Shechinà parlava attraverso la gola di Moshè”. Com’è possibile allora, che mentre D-o era apparentemente irritato dalla richiesta di inviare gli esploratori, Moshè sembrava esserne contento, dichiarando: “La questione era buona ai miei occhi” (Vedi commento di Rashi al versetto 1:23)? Abrabanel, commentando il resoconto di questa settimana sugli esploratori, riflette: “Ci sono momenti in cui uno può fare una richiesta molto nobile … eppure rovina tutto a causa del modo in cui sceglie di porre la richiesta”. Rashi commenta l’espressione della Torà, “E tutti voi vi siete avvicinati a me”, scrivendo che le persone si sono avvicinate a Moshè in modo disordinato e irrispettoso. Giovani e vecchi si spingevano e si accalcavano l’uno sull’altro, senza mostrare rispetto per i leader che erano tra loro. Sforno rileva inoltre che una proposta così importante avrebbe dovuto essere avanzata esclusivamente dai leader delle tribù, e non avrebbe dovuto essere una richiesta comunitaria avanzata in maniera caotica. È interessante notare che Moshè ha risposto: “La questione era buona ai miei occhi”, senza quindi elogiare la loro richiesta, poiché era stata avanzata con sconsiderata audacia e non meritava lode. Infatti, dove non c’è rispetto, l’approccio deve essere sospetto. La questione – l’idea – comunque era buona [Abrabanel].
Le intenzioni più ammirevoli, se non accompagnate da un comportamento rispettoso, sono destinate al fallimento. Pinchas, prima di uccidere Zimri e Kozbi per il loro atto licenzioso (Bamidbar capitolo 25), si avvicinò a Moshè e gli chiese consiglio. “Fratello del padre di mio padre, non ci hai insegnato, quando sei sceso dal monte Sinai, che chi convive con un’idolatra, venga ucciso dagli zeloti?” (Talmud Sanhedrin 82a) Pinchas era uno zelota, in quel momento in uno stato di estrema agitazione, e si preparava a prendere misure drastiche, ma, nonostante questo, non dimenticò il modo corretto di comportarsi. Quando si rivolse a Moshè, lo fece con profondo rispetto e sensibilità. In effetti, lo Shulchan Aruch (Yorè De’a 240, 242) regola che anche se uno vede il proprio insegnante o il genitore fare un errore nel campo dell’Halachà, non dovrebbe criticarli apertamente, ma piuttosto tentare di correggerli ponendo una domanda, proprio come fece Pinchas: “Padre, non mi hai insegnato quanto segue…” Queste sono Halachot fondamentali che dovremmo insegnare ai nostri figli per educarli al derech eretz (comportamento corretto) e al rispetto.
Uno dei tratti essenziali per una leadership di qualsiasi tipo e sicuramente per la leadership ebraica è coltivare quello che viene definito un “buon occhio”. I Chachamim nei Pirkè Avot sottolineano quanto avere un “buon occhio” sia un obiettivo e un risultato importanti nella vita. Un “buon occhio” permette di essere ottimisti e pieni di speranza, anche se la realtà della vita è spesso scoraggiante e negativa. Una delle prove più difficili della fede nell’ebraismo è la capacità di essere ottimisti anche di fronte a difficoltà schiaccianti. I Chachamim del Talmud ci insegnano: “Anche avessimo un coltello affilato alla gola, non dobbiamo disperare completamente”. Disperazione, critica spietata, pessimismo, amarezza, cinismo, sono caratteristiche che potremmo assumere nel corso della nostra vita come reazione a fatti che ci accadono. La Torà ci chiede di guardare alla vita e alle persone in modo realistico, senza illuderci rispetto ai problemi che esistono intorno a noi, ma dobbiamo comunque essere ottimisti, pieni di speranza e vedere le realtà e le circostanze della vita attraverso il prisma del “buon occhio”.
Molte volte, in un momento di polemica, specialmente quando percepiamo che stiamo agendo per rettitudine e che abbiamo intenzioni pure, presentiamo le nostre argomentazioni e posizioni in un modo che non si addice alla nobiltà dell’ideale che stiamo cercando di trasmettere. Le temperature si alzano, si accende la fiamma della giusta indignazione e si dicono cose di cui in seguito potremmo pentirci.
La differenza nella narrazione dell’episodio relativo agli esploratori ci insegna proprio questo. La parte più importante nel porre le nostre richieste è come queste vengono portate avanti: Il modo di porsi, il rispetto verso chi è più sapiente, il riconoscere la realtà senza abbandonarsi alla disperazione sono la ricetta per rimanere sulla retta via ma anche per educare le prossime generazioni.